giovedì 25 ottobre 2012

Dalla vetta del mondo

Dalla vetta del mondo, o comunque da un punto molto, molto alto nel cielo, rispetto a quello a cui normalmente si è avvezzi. 

Alle volte ho come l’impressione non ci sia un senso, in questa gabbia di vetro che gentilmente mi tiene sospeso lì dove i gabbiani si mantengono immobili, figurine ritagliate nel cielo. Le finestre sono finte, non è visibile l’orizzonte e non riesco, davvero non riesco, a non pensare al fatto che non sono nato, io, perché i miei piedi arrivassero quassù. 

A dirla tutta, non sono nato per molte cose e forse è tutto uno strano gioco che non capisco, che son talmente stanco da non riuscire neppure lontanamente a comprendere. Sono talmente stanco da arrivare ad odiare la strana abitudine per la quale finisco sempre a pormi interrogativi sul senso delle cose, come se per forza dovessero averne uno, come se tutto ne avesse dovuto avere per nascere. A priori. Li posso immaginare, gli schizzi dei progetti per un fiore: “troppo rosso? Troppo pendulo? Gambo troppo lungo? Troppo corto? Così non va, così non va... Sicché bisogna rifare tutto, tutto daccapo!”.

Prima è arrivata Kerin, qui nel mio ufficio. Non ha bussato, ma neppure ha fatto qualsiasi altro genere di rumore. Mi sono accorto di lei per un cambiamento nei riflessi di luce nella stanza o per un impercettibile moto d’aria che si è fatto spazio. Non saprei. Fatto sta che me la sono ritrovata lì, gonfia e abbondante come sa esserlo solo una persona che non ha più la pazienza di rigirare ancora un poco, sulla lingua, le proprie parole; è quasi esplosa, poi, gridando: “Volevo dirtelo, sei tra i primi. Io e Ben abbiamo deciso di avere un bambino”.

Non so quale demone del cielo possa aver guidato le mie espressioni, da quel punto in poi, ma so per certo che non ricordo d’aver notato in lei alcun atteggiamento che potesse rivelare che avesse inteso quanto il suo dire mi avesse, in una qualche misura, stordito. Forse erano solo una manciata i minuti che intercorsero da quel momento a quello successivo che ho ben chiaro in testa: le 15.33. I numeri, quei numeri. Quei numeri li ho guardati con certo sguardo obliquo, perché parevano parlare: “Quindi ci trentatré” che, per scarto, si trasformava in “Quindi ci tentate”. 

Sì, “quindi ci tentate, tu e Ben. Bene. Ben e.” Insomma, ammattivo. Non erano lei e Ben, non era quel bambino in crescita dentro un futuro ancora incompiuto, era la premeditazione, quello che sta tra la scelta e il cielo – l’inaspettato, l’inconcluso – ciò che stava già, lo sentivo, iniziando a perseguitarmi. 

Foto: Tom Ryaboi/Wenn.com


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